Dialogo filosofico in difesa degli oppressi

Aspro duello dialettico tra Gianni Vattimo ed Enrique Dussel, invitati dal Centro per la Pace di Bolzano. L’argentino: “Il capitale ha un carattere distruttivo”.
9 ottobre 2007 - Arturo Zilli

Tre ore di dibattito ferratissimo, scaturito dal confronto tra due diverse - e per molti versi agli antipodi - concezioni della storia e del pensiero filosofico sono state l’esempio che la filosofia ha ancora qualcosa da dire nella nostra situazione politica e storica. Un’aula magna dell’università di Bolzano affollatissima - come era avvenuto solo in occasione dell’incontro con Ryszard Kapuscinksi – ha accolto il 10 settembre l’incontro tra la filosofia del “pensiero debole” del pensatore torinese Gianni Vattimo e la “Filosofia della liberazione” di Enrique Dussel, uno dei padri del pensiero critico latinoamericano. Il titolo, scelto dal coordinatore del Centro per la Pace, Francesco Comina, in accordo con i due relatori è stato “Per un disarmo della ragione. La fine del sogno occidentale e l’irruzione della diversità”.
Molto frizzante e costellato di “punzecchiature” al collega sudamericano è stato l’intervento di Gianni Vattimo che ha sfidato Dussel a mostrargli “cos’abbia veramente da insegnarci per andare in aiuto dei più deboli la filosofia di cui è portatore Enrique Dussel”.
Se Vattimo ha ammesso di aver sempre guardato negli anni passati con scetticismo la riflessione filosofica che proveniva dall’America Latina, al giorno d’oggi il docente crede che le idee più feconde “provengano proprio dal continente latinoamericano e siano in gran parte debitrici della cultura indigena. Al contrario dagli Stati Uniti, che sono in disfacimento, arrivano solo idee pericolose per loro stessi e per chi li imita”. L’intellettuale italiano, accusato da pesantemente Dussel di essere fautore non di un “pensiero debole” ma di un “debole pensiero” che esclude i poveri e gli oppressi e li lascia soli, senza armi, ha operato una difesa molto convincente delle proprie teorie, mettendo in evidenza come “proprio il pensiero debole in realtà stia dalla parte delle vittime perché è contrario ad ogni metafisica assoluta, opprimente e tirannica”. “Solo con l’indipendenza dagli assoluti metafisici, infatti, i più deboli possono vivere”, ha ribadito Vattimo, “le mie riflessioni, pertanto, sono il tentativo di concettualizzare e realizzare un rapporto diverso, non gerarchico, tra le culture, eliminando tutti gli idoli”. Il pensatore torinese ha quindi cercato di misurarsi con Dussel sul piano dell’attualità politica latinoamericana che lo vede osservatore attento e bene informato. Gianni Vattimo ha sostenuto di riporre ogni residua speranza politica nel “socialismo del XXI secolo, che viene dal Sud dell’America” e che hai volti del sempiterno Fidel Castro, del presidente venezuelano, Hugo Chavez, e del suo collega boliviano, Evo Morales. Con un gusto tutto particolare per la battuta fulminante e la volontà di sgomentare l’auditorio, Vattimo ha raccontato di essersi scoperto “comunista” dopo aver visto che “l’unica strada percorribile ed è quella che ha intrapreso Chavez con “i soviet più elettricità”, come diceva Lenin, ovvero il petrolio assieme ai comitati di quartiere formati da operai e contadini”.
La replica non si è fatta attendere e, con un lungo excursus storico-filosofico, il filosofo argentino ha accompagnato i pubblico alla scoperta di quella che lui considera il più grande risultato della filosofia della liberazione , cioè la revisione dell’eurocentrismo della cultura occidentale, che rende incapace di vedere la storia con gli occhi di coloro che sono sottomessi: il contadino sfrattato dalle terre, l’indio massacrato, il nero disprezzato per la sua pelle, l’emigrante “di cui io stesso sono discendente”, come ha orgogliosamente rivendicato Enrique Dussel nel corso del suo intervento. Anche il docente latinoamericano ha indicato come segnale di novità e speranza l’esperimento politico di Morales che, da indio alla presidenza di uno Stato, ha ribaltato e sconfitto il colonialismo che continua ad affliggere tanti Paesi del continente latinoamericano. “Morales è un servitore del popolo come nella tradizione aymara, il popolo da cui lui stesso proviene – ha chiarito Dussel - e la filosofia della liberazione ha l’obiettivo di rendere possibile un'altra forma di potere, il “potere obbedienziale” di quanti comandano obbedendo come ha predicato anche il subcomandante Marcos rappresentante degli zapatisti messicani”.
Le conclusioni sono state dedicate alla tematica dei “Limiti dello sviluppo” e, almeno, su questa tematica l’accordo tra i due pensatori , pur da posizioni di partenza diverse, è stato totale. “Occorre certamente ripensare il rapporto tra esseri umani e risorse naturali e – ha concluso Dussel - questo può avvenire solo se affrontiamo una lettura diversa di Marx, non dogmatica come in passato, ma che miri a riconoscere il carattere distruttivo e mortale non della tecnologia, ma del capitale stesso”.

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