Le donne palestinesi

In Terrasanta donne e bambini sono vittime di violenze e violazioni di diritti un quadro dettagliato e puntuale della condizione femminile in Palestina, a simbolo di tutte le donne violate.
Angela Lano (Direttrice dell’Agenzia stampa Infopal.it)

La situazione di violenza continua a cui il popolo palestinese è sottoposto da decenni, si ripercuote negativamente nei rapporti all’interno della società palestinese stessa. Donne e bambini sono le “categorie” più a rischio di aggressioni e di attacchi da parte dei maschi adulti conviventi. Denunciare violenze fisiche, psicologiche, stupri e incesti non è assolutamente facile per donne e minori palestinesi: la struttura sociale, per molti versi patriarcale e maschilista, e la mancanza di una giurisprudenza adeguata, rendono la persecuzione dei colpevoli quasi impossibile.
Associazioni e gruppi per la difesa dei diritti umani, dell’infanzia e della donna, da anni denunciano un incremento preoccupante di violenze domestiche, sia tra le famiglie musulmane sia tra quelle cristiane.
Per donne e bambini, dunque, all’oppressione soffocante e disperante dell’esercito israeliano, al carcere, alla mancanza di opportunità e di futuro, sia aggiungono le violenze familiari. Il focolare domestico, anziché lenire, mitigare l’inferno esterno, in molti casi è luogo di altri soprusi.
Molti analisti mettono in relazione l’escalation di violenze familiari con il peggiorare continuo della situazione politica ed economica palestinese. L’uomo sperimenta da tempo l’umiliazione delle percosse, delle aggressioni dei militari israeliani perpetrate davanti ai figli, alla moglie. La mancanza di lavoro, poi, produce rabbia e frustrazione che vanno ad aggiungersi a quelle prodotte dalla violenza subita quotidianamente per la strada, ai check-point, in carcere. Tale accumulo di energia negativa viene spesso rilasciato in famiglia, contro i più deboli e indifesi.

Donna e lavoro

Le donne hanno meno diritti degli uomini e maggiori difficoltà a trovare un lavoro.
Nel 2005, solo il 14,1% delle donne al di sopra dei 15 anni era occupata, contro il 67,8% dei maschi. La metà di esse riceveva salari bassi e svolgeva mansioni modeste.
Certi settori professionali, infatti, sono prevalentemente in mano agli uomini: la giustizia, ad esempio, può vantare solo il 9% di donne giudice e il 12,2% di donne procuratore. Le donne avvocato raggiungono, invece, il 31,2%.
Al governo le donne sono scarsamente rappresentate: nell’esecutivo Hamas, formatosi subito dopo le elezioni del 25 gennaio 2006, l’unica ministra era Mariam Saleh; nel successivo di unità nazionale sono state in due.

I diritti delle donne

Il ruolo delle donne è stato molto importante nella lotta di liberazione palestinese degli ultimi decenni. È sorto un movimento femminista, di sinistra e laico, ostacolato, per motivi diversi, dai partiti tradizionali palestinesi e dai movimenti islamici. L’accusa più comune che i movimenti femministi, in Palestina e nel resto dei Paesi arabo-islamici, hanno ricevuto è stata quella di essere “occidentalizzati” e di voler minare le radici della famiglia e della società patriarcale.
Dopo la fine della prima Intifada – che ha visto fortemente co-protagoniste le donne – e la firma dei fallimentari Accordi di Oslo, nel 1993, le femministe hanno iniziato a lavorare sull’uguaglianza tra i sessi e le pari opportunità all’interno delle istituzioni politiche e amministrative dell’appena nata Autorità Nazionale palestinese.
È del 1994 il “Memorandum dei Diritti delle Donne”: il documento sottoscritto dall’ANP accoglieva la Convenzione internazionale sulla “Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne” e richiedeva “giustizia, democrazia e eguaglianza di genere” all’interno delle strutture politiche “statali” palestinesi in formazione.
Le attiviste delle Organizzazioni Non Governative femminili sono riuscite a far sì che la Giustizia Suprema islamica accogliesse alcuni punti fondamentali da inserire in un disegno di legge sulla famiglia da presentare al ministero della Giustizia palestinese (che non l’ha mai presentato in Parlamento): limite di età a 18 anni per il matrimonio sia per i ragazzi sia per le ragazze; limitazione del diritto alla poligamia; accesso facilitato al divorzio per le donne attraverso il khula (divorzio non di colpa) e l’inserimento di ragioni per “insormontabili differenze”; sterilità come motivo di divorzio per entrambi; equa divisione delle ricchezze acquisite durante il matrimonio; compensazione economica per la donna quando il marito divorzia arbitrariamente; istituzione di un fondo pubblico per pagare il mantenimento a donne e bambini dopo il divorzio. Nel 2002 le attiviste delle ONGs femminili hanno creato un “Forum contro la violenza alle donne”, una rete di 13 organizzazioni che collaborano contro la violenza domestica. Molte di queste organizzazioni sono ancora attive e sostengono a vari livelli le donne vittime di abusi e maltrattamenti.
La creazione di un ministero per gli Affari femminili, nel 2003, è un’altra conquista del movimento delle donne.

Nelle mura di casa

Le violenze domestiche sono difficilmente denunciate alle autorità. L’Ufficio Centrale di Statistica palestinese tra il 2005 e il 2006 ha condotto un’inchiesta su 4.212 famiglie nei Territori occupati e ha rivelato che soltanto una netta minoranza delle vittime di violenze si è rivolta alle istituzioni: il 23% delle donne intervistate era stata oggetto di maltrattamenti fisici; 61,7% di violenza psicologica e il 10,5% sessuale. In tutti i casi, il colpevole era il marito. Tuttavia, soltanto l’1,2% delle donne aveva denunciato il coniuge alla polizia o alle istituzioni; meno dell’1% aveva cercato aiuto o sostegno. Nella maggior parte dei casi, le donne ritenevano inutile rivolgersi alla polizia, o addirittura dannoso.
Molte, inoltre, avevano paura del giudizio della società; altre temevano addirittura per la propria vita. Sondaggi popolari, infatti, evidenziano come la società palestinese non sia disposta a perseguire chi maltratta le donne e, nella maggior parte dei casi, chiede loro di non denunciare le violenze. Molte madri vittime di abusi non si ribellano perché temono di perdere la custodia dei figli, di essere buttate fuori di casa, di essere rifiutate dalla famiglia. Il divorzio è considerato come una vergogna, una colpa, anche se servirebbe per liberarsi dalla tirannia di un marito violento e pericoloso. Anche presso alcune comunità palestinesi all’estero, una donna che decide di lasciare un marito aggressivo viene giudicata negativamente. La violenza stessa non viene creduta reale e la donna è accusata di cattivo comportamento.
Nel 2006, il Palestinian Central Bureau of Statistics ha pubblicato una ricerca che rivela come il 23,3% delle donne sposate, sia in Cisgiordania sia nella Striscia di Gaza, è stata oggetto di violenze fisiche, e il 61,7% di violenze psicologiche.
Sono molte le associazioni per i diritti delle donne palestinesi ad aver denunciato un aumento delle violenze domestiche dal 2000 in poi – data di inizio della seconda Intifada – probabilmente come conseguenza del deteriorarsi delle già precarie condizioni economiche, politiche e sociali.
Sono in crescita anche gli stupri perpetrati dal marito o da altri familiari e le violenze durante i rapporti sessuali coniugali. La denuncia per stupro deve essere suffragata da “prove”, ma i codici legislativi egiziani e giordani, ancora in vigore in Palestina, non contemplano la violenza sessuale all’interno del matrimonio. Quindi, non è facile, per la vittima, ottenere il divorzio o la condanna – se mai decidesse di denunciarlo – del marito violentatore.
L’art. 33 del codice penale giordano mette in relazione l’eventuale pena per l’aggressore con il numero di giorni che la vittima ha passato in ospedale!
In una ricerca pubblicata nel 2005, Palestinian Central Bureau of Statistics ha rivelato che il 51,4% delle mamme palestinesi temeva che almeno una delle loro figlie poteva essere soggetta a violenza da parte di membri della famiglia.
Ogni anno, numerose donne, anche molto giovani, sono sottoposte a violenze sessuali, ma soltanto poche le denunciano: la paura di essere emarginate, perseguitate dalla famiglia e dall’ambiente sociale in cui esse vivono, impedisce loro di chiedere giustizia. Nel caso di ragazze nubili, spesso lo stupro viene “risolto” con il matrimonio riparatore, come avveniva anche in Italia, soprattutto nel Sud, fino a qualche anno fa. Sugli 85 casi di stupro ufficialmente denunciati nel 2003, soltanto 2 hanno portato alla carcerazione dei colpevoli, probabilmente, nella maggior parte degli altri, il matrimonio ha coperto il crimine.
La società palestinese, in particolare quella delle zone rurali, non è preparata a riconoscere e a perseguire la violenza sessuale: le vittime sono colpevolizzate, accusate di “essersela cercata” con comportamenti o abbigliamento “sbagliati”, e spesso rischiano di essere uccise perché “l’onore sia lavato”. La vittima è dunque trasformata in colpevole, in capro espiatorio della violenza altrui.

Delitti d’onore

Gli omicidi per ragioni di “onore” sono piuttosto diffusi in Palestina, e in crescita, sia nella Striscia di Gaza sia nella West Bank: la cronaca nera settimanale riporta notizie di giovani trovate morte – strangolate, avvelenate, accoltellate, ecc. – dai propri familiari. Per essere giudicate “svergognate” basta poco, anche una semplice conversazione in chat-line con persone del sesso opposto. Il “disonore” passa attraverso le chiacchierate con uomini che non fanno parte della famiglia, il matrimonio non approvato dai familiari, per arrivare fino allo stupro e all’incesto subiti.
Molto significativamente, alcune attiviste per i diritti umani, definiscono tali crimini “femminicidi” piuttosto che delitti d’onore. Infatti, qui gioca un grande ruolo la discriminazione sessuale, il tribalismo patriarcale, misogino e antifemminile, che può coinvolgere sia musulmani sia cristiani.
Le gravi restrizioni di movimento tra le varie città palestinesi, causata dai check-point e dai coprifuoco israeliani, spesso impediscono alla polizia o agli operatori sociali dei centri per i diritti umani di intervenire in tempo quando vengono segnalate situazioni di immediato pericolo per la vita di una donna “disonorata” (Fonte: Human Rights Watch, “A Question of Security. Violence against Palestinian Women and Girls”; “Domestic Violence against Palestinian Women Rises”, Middle East Times, September 20, 2002; Kamel Al-Mansi, “Family Violence against Women in the Gaza Strip: Prevalence, Causes and Interventions”, Gaza, Women’s Affairs Center, 2001).
Negli ultimi due anni le forze di occupazione hanno arrestato circa 500 donne, di cui molte sono madri di famiglia. Alcune hanno partorito in carcere.
Nel 2006, 20 ragazzine al di sotto dei 18 anni si trovavano in prigione, in celle con adulti. L’occupazione israeliana ha peggiorato enormemente la già precaria condizione femminile: oltre all’incarcerazione di molte madri di famiglia, la politica di arresti di massa di uomini palestinesi ha aggiunto ulteriori responsabilità alle donne, che devono cercare di sostentare la famiglia mentre il marito o i figli maschi sono in carcere.
Le prigioni in cui il governo israeliano fa rinchiudere le palestinesi sono Ha’asharon-Tilmond e Ramle – Nafe Trista, all’interno di Israele.
Le donne palestinesi hanno sperimentato il carcere già dai primi tempi dell’occupazione israeliana della Palestina: sono state torturate, picchiate, umiliate, violentate, condannate a lunghi periodi di detenzione.
Tuttavia, il numero di prigioniere negli ultimi anni sta crescendo molto: nel 2004, erano 81, nel 2006 erano 120. Tra di loro ci sono minorenni e tante mamme, alcune donne incinta al momento dell’arresto. Ci sono stati casi di partorienti costrette a dare alla luce il proprio bambino con i ceppi alle mani e ai piedi.
Durante gli interrogatori, le donne, come gli uomini, sono soggette a torture, percosse, umiliazioni, insulti, minacce, pressioni psicologiche, ecc. Arresti e perquisizioni fisiche spesso sono effettuate da personale maschile, che le rende ancora più mortificanti. Gli interrogatori possono andare avanti per l’intera giornata e continuare per diversi giorni. Le celle sono piccolissime, affollate, in pessime condizioni igienico-sanitarie e poco areate. L’alimentazione è carente e scarsa (anche per le gravide e le puerpere).
Inoltre, donne e uomini palestinesi prigionieri devono pagare costose multe al momento dell’arresto e il proprio “mantenimento” in carcere (centinaia di dollari al mese!).
Cure mediche e psicologiche, percorsi scolastici, libri e attività sportive o educative non sono previste. Ai malati cronici o a quelli affetti da tumore non vengono garantite né diete né cure adeguate. Per qualsiasi tipo di disturbo, il prigioniero/la prigioniera deve aspettare il giorno in cui il medico è presente in carcere. La detenzione di cittadini palestinesi in prigioni israeliane lede l’art. 49 della IV Convenzione di Ginevra, ma non è che una delle innumerevoli violazioni dei diritti umani e della legalità internazionale commesse da Israele.
Un altro tragico, disumano, fenomeno, molto diffuso negli ultimi anni nella Cisgiordania occupata, è il parto al check-point: donne in travaglio cercano di raggiungere il più vicino ospedale per partorire, ma il Muro di separazione, i posti di blocco e le varie barriere impediscono loro di arrivare a destinazione.
I soldati israeliani non permettono il transito neanche in questi casi, estremi, e molte madri sono costrette a dare alla luce la propria creatura per terra, davanti alla gente, senza assistenza medica.
E, spesso, donna e bambino muoiono o riportano gravi problemi di salute con danni permanenti.

La fonte dei dati citati in questo articolo è: Agenzia stampa
http://www.infopal.it


Si ringrazia il Cipax che ha collaborato alla realizzazione di questo dossier.

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