Palestina

Cronaca di un'ordinaria giornata sotto occupazione

Un altro giorno nella vita di una persona insignificante

La professoressa Lisa Taraki insegna nel "Women's studies Program" all'universita' di Bir Zeit. Qui ci descrive cosa le e' accaduto ieri nella colonia di Beit El, dove i palestinesi dal distretto di Ramallah devono andare per ottenere permessi dalle autorita' di occupazione. La road map per Beit El da' un idea di quali possano essere le prospettive di pace della "Road Map" di George W. Bush.
Lisa Taraki
Fonte: Electronic Intifada, http://www.electronicintifada.net - 17 luglio 2003

16 luglio 2003 -- E' un caldo giorno di luglio. Dalle dieci del mattino, ora in cui arrivo, il posto brulica di richiedenti speranzosi. Molti sono qui dalle otto e trenta, quando sono state aperte le porte.
L'avanposto dell' "amministrazione civile israeliana" al limitare della colonia di Beit El consiste in alcune baracche con tetti di stagno ondulato sormontati da sacchetti di sabbia, filo spinato e un'affollata torre di controllo che deve aver visto giorni migliori. Alle macchine non e' permesso entrare nella struttura, i richiedenti e i supplicanti devono camminare in fila per l'unica superstrada Ramallah-Nablus a piedi, oltrepassando montagne di fango molle e calpestato da migliaia di piedi, raggiungendo la struttura dal desolato parcheggio da lato della strada che da' verso Ramallah. Un concessionario ha ottenuto il permesso di distribuire caffe', bevande fredde e noccioline in cambio della pulizia del cortile. I bagni pubblici sono luridi, e un salutare sciame di volatili rallegra l'accesso alla moltitudine brulicante.
Ci sono quattro bacheche con indicazioni in ebreo e in arabo sui differenti tipi di permessi che possono essere richiesti e ricevuti. Un grande assembramento di uomini di eta' varia e qualche donna aspettano pazientemente alla finestra dove si rilasciano le carte magnetiche. La mia finestra, una finestra multifunzionale per vari tipi di permessi, e' nel caos. Un uomo giovane e corpulento si e' piazzato all'inizio della fila e si e' autoincaricato di fare da traduttore per noi ignoranti. Sta cercando di spingere la pila delle applicazioni ammucchiate sin dalle otto e trenta del mattino attraverso una piccola apertura della "finestra" (protetta da sbarre di ferro) in modo che il soldato-impiegato dall'altra parte le possa esaminare. Dalle dieci e' abbastanza fortunato da avere un impiegato che le riceva. Io ho un sospiro di sollievo perche' la mia pratica con la richiesta di poter usare l'aeroporto di Ben Gurion per un viaggio all'estero e' sopra le altre carte. O almeno cosi' credo. Decido di utilizzare il mio tempo di attesa per un'indagine etnografica. Un buon settore trasversale della societa' e' rappresentato qui. L'equilibrio tra la presenza femminile e quella maschile e' abbastanza accettabile.
La maggioranza dei richiedenti e' qui per avere permessi per attraversare i check point, rilasciati per durate varie (da poche ore ad alcuni giorni per i check point interni). Pochi vogliono pass israeliani, permessi per entrare in Israele. Alcuni, come me, stanno stanno aspettando permessi per poter usare l'aeroporto di Tel Aviv. Una giovane coppia di Gaza, che vive a Ramallah, spera di avere il permesso per visitare la famiglia a Gaza (non li vedono da due anni).
Alle 11 e 40 annunciano che l'ufficio verra' chiuso fino all'una i punto per la pausa pranzo dei soldati. Ci sono molti commenti sul tipo di cibo che andrebbe consumato dai soldati e auguri per una buona digestione.
Alle due e trentacinque in punto, la tendina dall'altro lato della mia finestra si muove. Una gran folla di gente fiduciosa prepara le carte di identificazione aspettando che il proprio nome venga chiamato. Questa volta e’ un falso allarme, probabilmente un soldato distratto ha urtato la tenda. A questo punto un giovane uomo strategicamente situato vicino alla finestra mi dice che ha appena visto le mie carte nella nuova pila che verra’ riesaminata alla riapertura. Sono allibita, pensando che erano state sottoposte con il gruppo delle dieci... ma uno non puo' mai essere sicuro...
Alle due e quarantacinque la tendina viene spostata di nuovo. Durante quindici minuti i soldati ricevono una nuova pila di richieste e la gente afferma vittoriosamente che una volta inoltrate l’attesa sara’ breve. Alle tre del pomeriggio viene fatto l’appello. Ma chi puo’ sentire il proprio nome con cosi’ tanto rumore intorno?
Il nostro infaticabile interprete salva la situazione, urlando i nomi. La parola piu’ urlata dopo i nomi e’ marfoudh (rifiutato). Ad altri, piu’ fortunati, viene chiesto di integrare la propria richiesta con un referto medico, referenze del datore di lavoro e cose simili, e di tornare nei giorni successivi.
Alle 4 del pomeriggio mi e’ chiaro che la mia carta e’ stata inserita tra il blocco del pomeriggio. Una successione veloce di marfoudh e poi niente. Un giovane uomo mi rassicura che in genere i nomi rifiutati vengono urlati all’inizio. Per cui il fatto che io non sia stata chiamata e’ un buon presagio.
Alle 4 e 50 sento il mio nome sopra il baccano. Ma come avvicinarsi alla finestra con la moltitudine di gente accalcata li’ di fronte? Molti si sono arrampicati sulla ringhiera per avere una visuale migliore su cio’ che succede oltre le sbarre di ferro. Ma la massa galante fa un po’ di spazio per far passare una donna. Il soldato sbraita qualcosa in ebraico, ma questa volta un nuovo interprete (il primo se n’e’ andato con il suo marfoudh) viene in mio aiuto. Io provo in inglese. “Tu sei rifiutata”. Grazie tante.
Ho speso sette produttive ore in un’osservazione scientifica per un’istruttiva indagine. Appena lascio la struttura una donna straniera mi spinge confidenzialmente verso la sua macchina, con la targa gialla israeliana. I soldati le intimano di spostare la macchina in un posto lontano dall’entrata. So che e’ qui per avere dei permessi per dei palestinesi, per conto della sua organizzazione o del suo governo, e c’e’ bisogno di una piccola intercessione con l’esercito affinche’ questi possano andare all’estero utilizzando l’aeroporto di Ben Gurion e non subire l’umiliazione della strada attraverso la Giordania. Io naturalmente ho la stessa idea.
“Io non sono responsabile per l’occupazione” mi dice, quando le faccio notare che mi piacerebbe che le centinaia di persone li’ dentro avessero lo stesso privilegio. “Bene, esamina la tua coscienza e vedi se tu non ne sei complice”, e’ il mio colpo finale prima di mettermi in viaggio verso Ramallah attraverso il sentiero polveroso che parte dal parcheggio. Ma chi puo’ essere sicuro che non siano tentati tutti di usare un piccolo intervento?

(traduzione a cura di Peacelink)

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